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domenica 8 giugno 2014

Gabrielle: ho firmato perché..

Sono nata a Milano ventisei anni fa. Un bambino, maschio. O così almeno sosteneva il dottore che mi visitò appena nata. Ma la mia non è una storia di disforia. Come mia madre mi racconta spesso, appena nata continuavo fissare ostinata quel pediatra che mi girava e rigirava per svolgere gli accertamenti di rito, tanto che, finita la visita, il dottore si lasciò sfuggire: “Devo farvi i miei auguri, signori, questo bambino darà filo da torcere”. E così è stato: la mia non è una storia di disforia, ma di libertà e di lotta, di dignità e amore, seppur attraverso il dolore. Sono stata amatissima dai miei genitori, sempre divisi, loro malgrado, tra il desiderio di lasciarmi libera di esprimermi e il peso del giudizio degli altri, che trovavano scandaloso avere un figlio che “faceva la femmina” e lasciarglielo pure fare. Con loro ho vissuto serena, sapendo che ero meritevole di affetto come chiunque altro, pur essendo diversa, e questo mi ha resa la persona decisa che sono oggi. Il loro amore mi ha salvata dall’odio di me, dal vedermi sbagliata, portatrice di una “malattia”, dal desiderio di autodistruzione – che tuttavia, quasi inevitabilmente, per me come per tant* di noi, sono arrivati.

La vera malattia l’ho conosciuta nella compulsione dei miei coetanei a umiliarmi, demonizzare la mia differenza con scherzi crudeli, botte, violenze psicologiche, e nella complicità indulgente di adulti ed educatori. Il confronto con il mondo esterno era un dramma costante, che mi aveva gradualmente emarginata, irreparabilmente convinta che, per “quelli come me”, non ci fosse posto a questo mondo. Il dolore mi aveva divisa da me stessa, incapace di trovare le parole per raccontare chi ero, come mi sentivo, percepivo una rottura dentro di me. Come era possibile che la mia famiglia mi avesse amata tanto, se non ero che un fallimento, meritevole solo di scherno e umiliazione?

Mi ci sono voluti venticinque anni per guardare indietro e scoprire con meraviglia che, in realtà, non vedo nessuna rottura, ma una irriducibile continuità nella mia esistenza, che mi è stata restituita dalla mia scelta di affermare la mia identità. Quando a cinque anni pensavo al mio futuro da adulta, vedevo su per giù quella che sono ora (magari un po’ più sorridente), non certo quello che gli altri pensavano che avrei dovuto essere. Grazie all’educazione libera e amorevole che ho avuto in famiglia, non ho mai pensato che essere nata con certi genitali riassumesse e preordinasse in qualunque modo quella lunga serie di aspettative e norme che invece la società, presto o tardi, impone su tutti noi. Aspettative su chi dovremmo essere, cosa dovremmo fare nella vita, quali i ruoli a noi concessi, il linguaggio e le forme di espressione giuste per noi. Del resto, che cosa hanno mai saputo gli altri di chi ero io, cosa sentivo e desideravo per me? Alla fine, pur tra le violenze, la sofferenza della negazione e la gioia della scoperta di me, ce l’ho fatta, ho vinto le forze che volevano distruggere la mia verità del mio essere, espropriarmi di me stessa per obbedire a dettami che non ho mai sentito miei.

E, quando si arriva qui, ci si rende conto di quanto sia spontaneo, in realtà, essere noi stessi, di quanto lotta e sofferenza risiedano tutte nel combattere contro un modo che non comprende e non accetta. Per questo mi chiedo, e chiedo a tutti, perché, dopo queste lotte e conquiste, uno Stato dovrebbe negarmi la possibilità di vivere la continuità della mia vita, senza dover forzatamente dare spiegazioni ogni qual volta mostro il mio documento di identità? Perché dovrei essere obbligata a giustificare, scusare quasi, la mia esistenza agli occhi degli altri, quando per me non c’è niente di più sincero e giusto di ciò che vivo quotidianamente? Perché la mia identità deve essere violata ogni volta che qualcuno legge, scrive, chiama a voce alta un nome che non è mio, mentre io mi vedo costretta ad assicurare che non c’è errore, non c’è inganno, e tentare, spesso invano, di ristabilire in chi ho di fronte una fiducia ormai sbriciolata dal pregiudizio? E, dall’altra parte, perché, per porre fine a tutto questo, dovrei essere costretta a subire interventi chirurgici di cui non sento l’esigenza, volti unicamente a cancellare la mia individualità e omologarla a un modello imperante binario, sessita e genderista? Sono stanca di vedere la mia esperienza, insieme a quella di tante altre persone come me, messa a tacere e stigmatizzata, oppure strumentalizzata per scopi che non hanno niente a che vedere con il riconoscimento e la dignità delle persone trans*.

Ricordando le parole di un’amica molto cara, una delle persone più brillanti che abbia avuto l’immenso dono di conoscere, mi sento di poter dire che sogno una società in cui ognuno di noi sia libero di scegliere chi vuole essere, come vuole esserlo, e le persone che vuole amare, senza dover rendere nessuna giustificazione per le proprie scelte. Questo per me è vivere dignitosamente. E per questo ho firmato la petizione, e ho chiesto ai miei cari e ai miei colleghi di farlo insieme a me.


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